La maledizione del 24: ultima primavera per Lorenzo Insigne

Fonte: SSC Napoli

Piange. Rimproverandosi qualcosa di cui non vorrebbe avere la colpa, piange. Piange senza fare rumore per avere una parvenza di solitudine. Piange perché sbagliare un rigore in una finale contro la Juventus è l’ultima esternazione di una profonda dannazione interiore. Piange, e mentre piange le rughe accentuate dal peso dell’età e delle delusioni stridono con la voce strozzata, gli occhi di un bambino che non spera più. Lorenzo Insigne è stremato. Dalle pressioni, dalla necessità di dimostrare continuamente il suo talento.

Fino a qualche giorno fa Insigne viveva un grande momento. Domenica aveva segnato una doppietta alla Fiorentina, e portando a spasso cinque difensori aveva servito l’assist per il 3-0 a Lozano. Era passato poco meno di un mese dall’espulsione di San Siro, in cui aveva lasciato la squadra in dieci dopo aver insultato Massa, e tutto questo sembrava alle spalle. Prima della finale di Supercoppa, Roberto Mancini lo aveva definito «il meno sostituibile» tra i calciatori della nazionale, e con un gol alla Juventus avrebbe segnato il centesimo gol con la maglia del Napoli. Repubblica lo aveva incensato come il «grande solista, il direttore d’orchestra pieno di coraggio» di cui il Napoli aveva bisogno, e fino al 78esimo minuto di Juventus-Napoli Insigne è stato – insieme a Lozano – l’unico a calciare verso la porta di Szczesny.


In settimana il suo agente, Vincenzo Pisacane, aveva fatto il giro delle radio e delle tv locali, come (quasi) sempre avvelenando i discorsi intorno a Insigne: «con l’Inter si è visto un Ronaldo pessimo. Fosse stato Insigne lo starebbero massacrando». Ha negato qualsiasi trattativa, almeno al momento, per il rinnovo del contratto (quello di Insigne scade nel 2022) perché «sorgerebbero delle problematiche che potrebbero destabilizzarlo». Il 4 giugno Insigne compirà 30 anni e si trova di fronte all’ultima fioritura per la sua carriera, all’ultima vetta atletica. Probabilmente anche di fronte all’ultimo contratto importante.

Dell’essere capitano

Forse sono l’ultima persona che può giudicare Lorenzo Insigne. Non sono nato al centro di Napoli come lui, e non sento il «privilegio» di essere nato in un determinato posto del mondo invece di un altro. Posso dire di essere contento di essere napoletano per molti motivi (Eduardo, Maradona, Pino Daniele e poche altre cose), ma forse «orgoglioso» sarebbe troppo. Insigne invece usa spesso questo aggettivo, soprattutto quando parla del suo essere capitano. Per lui è un «orgoglio» rappresentare Napoli e i napoletani, è un «orgoglio» essere il capitano del Napoli. Anche se non è stato sempre così.

Il rapporto di Insigne con Napoli, e soprattutto con i tifosi del Napoli, è molto controverso. Se da un lato è impossibile non riconoscergli essere l’unico napoletano ad aver giocato a così alti livelli per così tanto tempo nell’era De Laurentiis (non considero Paolo Cannavaro perché la sua avventura in Champions League e più in generale a grandi livelli è durata pochissimo, forse un anno), dall’altro c’è un’ampia frangia di tifosi secondo cui Insigne è ancora un «capuzziello» incompiuto, un problema che limita il Napoli. Lo è stato quando ha buttato via la maglia durante Napoli-Athletic Bilbao (mentre veniva fischiato da tutto il San Paolo), e quando ha segnato al Parco dei Principi. Comunque Insigne sembra fregiarsi di questa ambiguità: «lo sapete meglio di me, con la piazza non ho mai avuto un buon rapporto» aveva detto ai giornalisti della RAI a novembre 2020 dopo Bosnia-Italia, un’altra partita con la nazionale in cui era stato decisivo con un bell’assist per Belotti.


Quello delle prestazioni in nazionale è un tema che spesso brandisce chi vuole sostenere l’incapacità di Insigne nel reggere le pressioni del Napoli, o di Napoli. Lo aveva detto anche Ancelotti, quando nel 2019 a Dimaro chiese in pubblico a Insigne: «ma com’è che in nazionale ti trovi meglio?». La risposta: «è sempre colpa dell’allenatore, lo sai no?». Fu una boutade, ma dopo un anno e mezzo è difficile contestualizzarla solo come tale. Spesso Insigne è accusato di essere un riottoso contro gli allenatori (Sarri, Ancelotti, Benitrez), un ammutinato, un bambino che vede nel Napoli il suo giocattolo e fa fatica a staccarsene. È stato così il 5 novembre, e quando ha segnato il gol vittoria contro il Liverpool nel 2018.

Si potrebbe dire che Insigne ha un rapporto strano con l’essere capitano. È la sua realizzazione e al tempo stesso la causa maggiore dei suoi crolli emotivi. Di quante cose si è dovuto fare carico Insigne dalla partenza di Hamsik e Sarri? Dov’è il punto d’incontro tra le richieste della città e i limiti di un calciatore che, per quanto forte, è un uomo? Davvero Insigne sta stretto al Napoli, o è il contrario?

L’ultima primavera

Mercoledì Insigne ha sbagliato il suo quarto rigore in carriera, di cui tre contro la Juventus. È una statistica di cui molti in questi giorni hanno parlato, ma quello che la rende così «maledetta» è che sono tre rigori sbagliati in tre modi diversi. Il primo, a maggio 2015, lo tirò perché Higuain non era in campo. Era la penultima giornata di campionato, e il Napoli era quarto in classifica, risultato: tiro strozzato tra le mani di Buffon; sulla respinta segnò David Lopez. Il secondo, a marzo del 2019, è quello in cui la sfortuna è più presente: il Napoli era sotto 1-2, e il rigore di Insigne si schiantò sul palo.

Ovviamente quello tirato peggio è il rigore di mercoledì. Non solo perché è finito a mezzo metro dal palo di destra di Szczesny (per la prima volta spiazzato da Insigne), ma per la «tristezza» con cui è stato calciato. Credo che quasi ogni tifoso del Napoli, di fronte allo sguardo basso verso il pallone di Insigne, che sembrava volersi fondere alle molecole d’aria dentro la sfera, abbia avuto la stessa sensazione: Insigne ha paura. Ha avuto paura di non corrispondere all’idea di sé che tutti quelli che lo hanno visto giocare almeno una volta hanno introiettato. Di non essere decisivo nel momento giusto.


Insigne è prima di tutto un altruista. Dopo l’assurda sconfitta in casa contro lo Spezia di qualche settimana fa, fu l’unico a presentarsi davanti ai microfoni di Dazn, per colpevolizzarsi: «devo aiutare di più la squadra, ma non ci sto riuscendo». In quella partita Insigne calciò 11 (undici, UNDICI) volte verso la porta di Provedel. Negli ultimi mesi si è perdonato poco, se non nulla. Sbatte sotto gli occhi di tutti i suoi errori, in una sorta di masochismo salvifico. Insigne ha paura di non vincere niente di importante con il Napoli, da capitano?

Nel primo episodio di How I Met Your Mother c’è una scena in cui il protagonista, Ted Mosby, parla con un amico della sua voglia di costruirsi una famiglia, sposarsi e, più in generale, del desiderio che la sua vita prenda una forma. L’amico, Barney Stinson, gli risponde: «Non pensarci fino a…diciamo…trent’anni». Ecco, mi sembra sempre di più che Insigne negli ultimi anni abbia vissuto una contraddizione del genere. È stato troppo giovane e inesperto per pensare di vincere a Napoli, troppo in là con gli anni per riuscire a trasferirsi e vincere altrove (sempre nel caso in cui lo avesse voluto). E questo in qualche modo, lo rende infelice e frenetico. Come se qualcuno dubitasse ancora del suo talento. Come se stesse capendo che la stagione della sua maturazione è giunta al capolinea.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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