Home Editoriali Non per amore, ma nemmeno per gioco: Marek Hamsik

Non per amore, ma nemmeno per gioco: Marek Hamsik

Riguardare il gol di Marek Hamsik contro il Milan dell’11 maggio di quasi tredici anni fa, oggi incute uno strano effetto. Prima la progressione da mezzofondista, poi il tempismo con cui sceglie il momento in cui calciare per difendersi dal rientro di Gattuso sono manifestazioni di un’armonia rara tra il corpo e la tecnica di Hamsik che avevo forse seppellito nei ricordi. Ripercorrendo quell’azione, quello che ancora mi risulta difficile è capire quale parte del tanto di Hamsik sia la più rivelativa, quella che gli somiglia di più. La sterzata secca e improvvisa, che costringe Kaladze a fare perno sulla gamba sinistra pur di restare in piedi – in quella che sembra una vana ostentazione di un onore bellico perduto? Oppure il modo in cui prende in contro-tempo Dida chiudendo il destro sul palo corto?

Quanti segnali ci ha lanciato – con un solo gol – Hamsik per farci capire che era un predestinato? Possiamo dire di averli colti tutti, o con il tempo ci siamo abituati al suo talento?


Uno degli sfondi più nitidi e decadenti che ricordo delle mie conversazioni della domenica mattina con mio padre, che non si allontanavano mai tanto dal commento a qualche pezzo del Corriere dello Sport – che sfoggiavo fieramente in una mano – è Pinetamare, o Villaggio Coppola. La stessa frazione colma di abusivismo edilizio in cui abitava Hamsik. Nella bellissima poesia La casa dei doganieri, c’è un verso di Montale che descrive bene quel panorama inquinato: «desolata t’attende dalla sera / in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri».

Non so perché mio padre scegliesse per i nostri pochi momenti di solitudine domenicali un posto così maledetto, le macerie desolate di un ex villaggio turistico. Ma sono piuttosto sicuro che se non mi ci avesse portato non avrei capito fino in fondo l’aura mitica e insieme fragile e distruttiva intorno a Marek Hamsik.

Le occasioni

L’estate del 2011 è il primo culmine nella carriera di Hamsik. Ha 24 anni, è reduce da un’ottima stagione personale (ha segnato 11 gol in campionato) e dal terzo posto in Serie A con il Napoli. Mazzarri lo ha plasmato in un ruolo ibrido, tra la mezzala di sinistra e la mezzapunta, con il compito di connettere il centrocampo e l’attacco. Ha già segnato gol molto belli, che danno un assaggio del suo talento: alla Sampdoria – il primo con il Napoli –, al Palermo, al Milan, una doppietta alla Juve, che ha portato il Napoli alla vittoria a Torino dopo vent’anni.

A metà novembre del 2009 è riuscito a qualificare la Slovacchia al Mondiale in Sudafrica. Per celebrarne la storicità si è persino tagliato la cresta, il tratto distintivo della sua silhouette. Al di là del prodotto estetico quantomeno discutibile – da ragazzino punk Hamsik sembra diventare il prototipo ideale di naziskin dell’est Europa –, Hamsik è considerato uno dei centrocampisti più interessanti della sua generazione. È difficile trovare in lui una qualità che spicchi, ma anche una lacuna da colmare: non è velocissimo, ma è sconsigliabile concedergli del campo aperto palla al piede. Agli inserimenti offensivi abbina una buona forza nei contrasti e, soprattutto, fa gol. Tanti. Tantissimi, per un centrocampista. Nove nei primi due campionati, poi undici, poi dodici.

Sì, è esistito un Hamsik senza la cresta. E non solo in un universo parallelo.


A Napoli è entrato a far parte della ristretta cerchia di miti da idolatrare, insieme a Lavezzi e Cavani. C’è già chi lo immagina a Napoli per sempre. Hamsik è silenzioso, timido. Non commenta le voci di mercato. Fino, però, a luglio del 2011, quando esce allo scoperto in un’intervista a Sky: «Se arrivasse una grande squadra ci penserei, anche se a Napoli sto bene. Non ho fretta di andare via». E se della Juve non se ne parla nemmeno«non avrei mai potuto fare una roba del genere» – il club più vicino a strappare Hamsik dalla sua isola felice (Hamsik a Napoli è stato felice?) sembra il Milan di Galliani, fresco campione d’Italia.

Mi sono sempre chiesto che cosa ci fosse dietro il linguaggio usato da Hamsik per descrivere il suo rapporto con Napoli. «Non ho fretta di andare via» significa che Hamsik aveva trovato a Napoli la sua dimensione, o che si stava in qualche modo accontentando? Era una dichiarazione d’amore – per dire: guardate che se non mi vendono io non me ne vado? Tutte le parole che Hamsik usa per parlare del suo status di bandiera sono ricollegabili alla serenità, prima che alla felicità. Al rispetto dei ruoli, soprattutto: «Se un popolo ti vede come bandiera non puoi tradirlo». O, come ha scritto nella sua autobiografia: «Il Napoli è una seconda famiglia nella quale ho la mia parte di responsabilità».

La prima vittoria

Hamsik ha vinto pochissimo. Per scelta o per condanna, credo non lo sappia nemmeno lui. Ma forse è da questo senso di impotenza di fronte alle vittorie altrui – quante volte il Napoli degli ultimi 12 anni è stato a un passo dalla vittoria? – che deriva il legame indissolubile con i pochi successi che hanno trapunto la sua carriera.

Il 20 maggio del 2012, all’Olimpico, si gioca la finale di Coppa Italia. Del trasferimento al Milan in estate non se n’è fatto niente – Raiola dice per le richieste di De Laurentiis, Hamsik sostiene di aver rifiutato l’offerta, qualcuno che il Milan non volesse spendere troppo –, e il Napoli si gioca la prima finale di un torneo dopo ventuno anni. L’ultima era stata la Supercoppa Italiana contro la Juventus. L’avversaria è di nuovo la Juve, ma a differenza di quella di Maifredi del 1991, la Juventus di Conte ha vinto lo scudetto, non ha mai perso in campionato e al ritorno, a febbraio, ha schiantato il Napoli per 3-0 allo Stadium.


Quella Coppa Italia è stato il primo trofeo della carriera di Hamsik, e il primo che ho visto vincere alla mia squadra del cuore. Quella Coppa Italia è stata la pietra angolare di molte cose successe al Napoli negli anni a venire, quasi tutte positive, ed è stata decisa da un gol di Hamsik. Forse è anche per questo che per una generazione di tifosi del Napoli, Hamsik è ancora «il capitano».

Club 27

Il rapporto tra il livello di prestazioni di Hamsik e del Napoli è stato raramente sincronico. Quando il Napoli era una squadra di metà classifica, le qualità dello slovacco hanno aiutato a spingere il club più in alto delle reali possibilità. Ma ci sono stati anni in cui Hamsik è stato considerato persino un equivoco, un problema irrisolto. Nel 2013 De Laurentiis ha deciso di internazionalizzare il Napoli: ha chiamato in panchina Benitez a sostituire Mazzarri e rivoluzionato la squadra. Higuain, Reina, Callejon, Mertens e l’ingresso in prima squadra di Insigne danno il via a una nuova epoca della storia del Napoli, di cui Hamsik dovrebbe essere capitano e fulcro del gioco nell’iper-offensivo 4-2-3-1.


Nelle prime due giornate di Serie A, lo slovacco segna quattro gol, contro Bologna e Chievo. Il Napoli è in lotta per lo scudetto e batte anche il Borussia Dortmund in Champions. Per Hamsik è un ottimo momento, interrotto solo dai problemi fisici. Da ottobre le sue prestazioni si sbiadiscono: si infortuna alla caviglia sinistra, sta fuori due mesi, e al suo ritorno capisce che quella non è già più la sua squadra. Tanto che nella sua autobiografia scrive: «Quando arrivò Rafa Benítez capii subito che mi avrebbe messo alla prova e avrebbe fatto vacillare parecchie mie certezze».

Le sostituzioni al 60esimo sono diventate un mantra, e lo saranno anche con Sarri. È uno dei bui più profondi e ciclici della carriera di Hamsik: sembra entrato – sportivamente – nel Club 27: ha solo 27 anni, ma la sua carriera è in decadenza, il fisico non sembra reggere, è accusato di non avere personalità per poter essere capitano. A gennaio del 2015 si fanno avanti diversi club: il Tottenham di Pochettino è disposto a fare follie per averlo, e se dipendesse da Benitez, Mertens e Gabbiadini basterebbero per sostituirlo. Ma De Laurentiis rifiuta: «Hamsik è la mia bandiera e continuerà ad essere il capitano».

Chi va, chi resta

Abbiamo davvero sopravvalutato Hamsik? Ci siamo fatti rapire dai primi anni in cui il suo talento emergeva in una squadra francamente modesta? Perché, se lui si definisce un leader «silenzioso» non ha mai preso la squadra per mano nei momenti difficili?

Credo ci siano due interpretazioni. La prima, è quella secondo cui Hamsik è stato effettivamente sopravvalutato, che in fin dei conti non ha mai inciso in una grande partita, e che è stato il titolare e il capitano del Napoli perché al Napoli degli ultimi anni è sempre mancato qualcosa per essere una squadra vincente. Soprattutto: che è stato amato perché ha saputo legarsi al territorio. Hamsik non è stato una star: usciva di sera per i pub di Pinetamare, partecipava alle attività delle scuole calcio locali. Ha vissuto in modo normale un territorio derelitto, decadente, dimenticato da tutti, pur potendosi permettere una vita diversa.


La seconda interpretazione, che credo si confaccia di più alla mia visione delle cose, è che Marek Hamsik è stato uno dei più forti centrocampisti del mondo per quasi dieci anni, ma il suo fisico e il suo carattere non ne hanno supportato la carriera. Sopra c’è il video del gol al Besiktas, e mi risulta complicato non ammettere che sia uno dei gesti tecnici più essenziali e principeschi che si possa rintracciare in un campo da calcio. È un tiro potente o a giro? Hamsik è stato un trequartista o un centrocampista centrale? Di quanti calciatori potete dire di non avere le parole per descrivere il loro modo di giocare?

Oggi Hamsik gioca al Dalian, in Cina, e nel tempo libero gestisce un’azienda di vini. «Durante Juventus-Napoli del 2018, quando Sarri mi ha sostituito, mi sono sentito inutile» – dice – «ero convinto ad andare via». Negli ultimi tre anni della sua carriera al Napoli, Hamsik ha sfiorato lo scudetto due volte, e in entrambi i casi non ha lasciato la propria firma nelle partite decisive. Ha giocato molto bene, ha infranto il record di gol di Maradona, ma è stato a sua volta superato da Mertens, nel giugno del 2020. Ancora una volta, non ha vinto niente.

Ho pensato spesso alla frase «mi sono sentito inutile». Come fa il capitano di una squadra che lotta per vincere il campionato a quattro giornate dalla fine a sentirsi inutile? Si può essere forti al punto da rinascere ogni anno, nonostante l’invecchiamento del proprio corpo, e insieme così fragili? Hamsik avrebbe fatto meglio a cambiare aria prima di sentirsi inutile? La poesia di Montale si concludeva così: «io non so chi va e chi resta». Ripensando alla sua carriera, forse sta qui l’essenza di un calciatore così complesso: nonostante la condanna di chi arriva secondo, di chi si perde nel momento clou, Hamsik può dire di essere sempre restato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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